2014 Umbratilis
Ada De Pirro
Della stessa sostanza della notte
Umbra profunda sumus. G. Bruno, De Umbris Idearum, 1582
Una forza lieve e determinata è nelle opere di Maurizio Pierfranceschi. Lievità e determinatezza sono nel modo con cui riesce a portare i materiali, da quelli più solidi a quelli meno resistenti, nella direzione del proprio lavoro; nel modo con cui convince l’instabilità della tempera diluita a prendere forma, a dare struttura alle immagini che, fluttuando, arrivano fino a noi; e ancora nel modo con cui riesce a convincere il legno a essere maltrattato dal fuoco, a subire una pennellata di colore e a farsi scolpire fino a raggiungere la leggerezza di un velo ricamato. La delicata forza di levare che mette nelle sculture, matrici imprecise che potrebbero essere utilizzate all’infinito, ha il suo contraltare nella via di porre della pittura, composta di infiniti strati di velature ombrose che nei lavori degli ultimi anni lasciano affiorare un brulichio sommesso di piccoli esseri animati. Pur nella distanza dei materiali utilizzati, l’evidente continuità tra le opere dichiara per delicati contrasti la necessità di mettere in dialogo alcuni degli opposti propri al linguaggio artistico (vuoto-pieno, forma‐informe, animato‐inanimato, luce‐ombra). Tutto è sfumato, intuito, appena percepito, ma stranamente perentorio. Le immagini che si danno ai nostri occhi sono immerse in un’atmosfera che oscilla tra la malinconia e la vitalità, tra l’evidenza e l’enigmaticità. Forme arcaiche che da un tempo senza storia arrivano nel presente e che riconosciamo come nostre.
Notturni
La notte è il regno delle ombre, e queste sono ciò che rimane della luce. Riconoscere il mondo delle ombre è stato già per gli antichi un prendere atto di qualcosa di oscuro e non controllabile ma non a caso si formò la leggenda che faceva nascere la pittura (e la scultura) dalla traccia di un’ombra su una parete. Si poteva avere fiducia nelle proiezioni di ombre perché queste venivano considerate un processo naturale di geometrizzazione del reale e quindi non così fallibile come le azioni dell’uomo. Ma il mondo rappresentato in ombra non lascia mai indifferenti, soprattutto quando è totale modulazione di colori monocromi evoca sempre atmosfere, memorie del nostro sottosuolo, misteriose presenze perché pur avendo forme date dagli oggetti e dalla luce, sembra avere una vita autonoma, una presenza che è anche un’assenza. I teleri di Pierfranceschi accolgono ampi paesaggi di boschi notturni che sembrano più che altro stati d’animo (dove, come nella serie di Boccioni, è lo spettatore al centro dinamico delle sensazioni). I legni offrono particolari ingranditi che aiutano a focalizzare con maggiore chiarezza alcuni elementi nascosti nell’indefinibile atmosfera dei dipinti. Prevale un senso di sottile inquietudine che attrae e immobilizza. Si prova lo stesso senso di sorpresa che dovevano avere i primi spettatori dei diorami fotografici, dove un qualsiasi brano di realtà era trasfigurato in immagini di consistenza effimera ma evocativa. Le proiezioni d’ombra dei primi esperimenti ottocenteschi creavano situazioni immersive e spaesanti, cariche di meraviglia. È così per i boschi d’ombra di Pierfranceschi, frammenti di un mondo in cui gli esseri presenti sono sorpresi in un attimo di sospensione che sembra possa durare per sempre. Le figure silenti mandano segnali di richiamo. Flebili voci che dall’intrico di rami si levano e pretendono attenzione. Un invito a entrare, attraverso un coinvolgimento sinestetico, in quel mondo che si dà e si nasconde, di cui si sentono i battiti e il pulsare di vite seppellite sotto velature acquose di umori umidi, come solo nei boschi di notte. Una vita nascosta, esseri còlti in stato di quiete che si volgono a noi senza spavento. C’è un invito in quegli occhi che ci guardano, un velo di inquietudine non lontano dal turbamento che destabilizza i personaggi di Pontormo o di Rosso Fiorentino. I sussurri che sentiamo provengono dagli sguardi di quelle creature. È così che capiamo quanto l’atto del vedere (guardare, osservare) sia il primo momento del comunicare. E senza sguardo l’arte non sarebbe. La sensazione di essere guardati - e chiamati - è la prova di essere lì a condividere quello spazio e di far parte di quell’atmosfera notturna che piano piano ci avvolge. Dal grigio al blu e ritorno. Anche noi ci sentiamo grigi e blu. Notturni anche quando, per il momento di un solo dipinto, il colore è un giallo solforoso con sfumature cangianti che ci introduce in uno spazio deserto ma ancora abitato, illuminato da una luce incerta e desolata. Nell’epoca delle ibridazioni cyborg, delle metamorfosi alchemiche tra corpo-macchina-oggetto, le figure che abitano il luogo ‐ che possiamo definire sì un bosco ma che potrebbe essere un fondo marino o l’antro di una grotta, o ancora il luogo di un sogno - appaiono in uno stato pre o post umano, nel momento della metamorfosi tra animale e uomo (o viceversa) in cui l’uomo condivide con l’animale lo stato di natura. E tutto deve ancora accadere o forse è già accaduto. È l’origine e la fine.
Trame
Nelle immagini scorgiamo mappature nascoste che, ricomposte attraverso piccoli indizi, sono lì per essere subito dimenticate. Quando sembra di aver ricostruito una trama si inizia subito a pensare ad altro, a dare un nome a una forma o una funzione a un segno. Gli alberi sono il reticolo portante, tutto il resto è di passaggio. Accade lo stesso con le carte geografiche dipinte da Vermeer nei suoi quadri, in cui, volendo, sappiamo riconoscere il territorio rappresentato ma siamo poi rapiti dal fascino dell’insieme e non ci interessa più capire cosa è rappresentato ma quello che ci evoca. Le trame impalpabili danno la possibilità di veder riassunti ampi territori del nostro sentire da segni che rimandano con la forza dell’analogia ad altro. Leggere una mappa evanescente, trovare una collocazione effimera, ha bisogno di tempo è un iniziare e poi un ricominciare. Un gioco che non porta a definire con certezza ma che anzi si basa sui dubbi e sugli enigmi. I paesaggi d’ombra dichiarano una conoscenza profonda ma dissimulata del luogo in cui ci troviamo, un luogo di margine dove le cose non appaiono così evidenti e delineate ma solo accennate e presunte. La nostra parte in ombra di junghiana memoria.
Tempo
Il grande protagonista di questi lavori è il tempo. Una lenta costruzione del tempo. Il tempo della coscienza che non attraversa le strettoie di passaggi logici ma è fatta di lampi e di piccole acquisizioni. Ci vuole tempo per entrare negli spazi dei dipinti e tempo per scoprire sotto le velature altre forme e altri segni. Trovare la propria posizione rispetto alle opere è entrare nel loro ritmo per comprenderle.
Gli oggetti di compagnia, due oggetti in legno appoggiati su stretti sostegni di quercia posti sul pavimento di fronte ai grandi teleri, hanno la stessa funzione delle predelle delle antiche pale d’altare. Sono lì a completare il racconto dei paesaggi. Aggiungono con la loro semplice presenza una diversa prospettiva, un allontanamento dall’immersiva ombrosità dei dipinti. Oggetti di mediazione tra tempi e situazioni diverse: il loro arcaico uso contadino e la loro presenza simbolica che prende forza dalla loro nuova funzione. Oggetti enigmatici e evocativi di una dimensione atemporale e per questo sempre contemporanea. Oggetti scelti dall’artista a cui noi possiamo attribuire uno per uno o assieme diversi significati. Sono lì e forse ci osservano anche loro, creando un dialogo nel nostro presente.
Time present and time past Are both perhaps present in time future, And time future contained in time past. If all time is eternally present All time is unredeemable. (T.S. Eliot, Four Quartets 1943).
gennaio 2014
Alfredo Zelli
Anzi tempo
Nessuno è protagonista, convivono, nessun primo attore, nessuna drammaturgia disegna temi principali e secondari, definisce primo piano e sfondo. Tema dell'opera è questo insieme senza gerarchie. In un mondo compatto e silenzioso dove l'azione è ridotta al minimo e bandita la narrazione, quella breve della cronaca o quella larga e distesa della storia, il senso di ogni elemento è stare, esistere. Così, bloccate, queste visioni si ritraggono in un fuori tempo da memoria ancestrale o anticipazione utopistica. Dell'utopia però non hanno la solarità, il nitore, l'ansia formalizzatrice del progetto. Tutto esiste, in un'atmosfera plumbea, un'ora indefinita, tra giorno e notte, una "non ora" senza volontà o disegno. Memoria ancestrale quindi, di una condizione, uno stato, un modo di essere rievocato in un'ora da sogno o dormiveglia.
Questa memoria però, per quanto atemporale non è solo astratta e poetica. C'è un luogo di evocazione da cui parte questo viaggio a ritroso: un nodo di case incastrate nell'appennino umbro-marchigiano, geografia consueta nelle opere di maurizio, e borgo d'origine della sua famiglia, deposito di una densa memoria collettiva, arcaica e contadina che egli fa sua e spinge indietro, prima degli atti e i giorni, al momento formativo, quando le cose trovano posto. Descrive così una condizione originaria di coesistenza assorta e silenziosa tra gli elementi fondamentali del mondo: natura, animali e uomini. Non cè Arcadia però in queste visioni, nessuna utopica età dell'oro. In questo "stare" di tutto e tutti cè un che di ineluttabile, un'accettazione da animali, paziente e passiva del mondo, perchè già nello stare è tutto il loro essere, non hanno bisogno di agire per esistere, "sono" e basta, come gli alberi. Opere come fotogrammi, frammenti di un mondo scelti ma non unici, lo sguardo potrebbe muoversi verso un colle o dietro un albero, e troverebbe altri uomini e animali che, in questa luce incerta, prenatale, sostano, senza aspettare nulla, osservano, annusano l'aria, se stessi e le cose e ancora "sono", prima che inizi il tempo, la storia e la narrazione.
Ma la memoria ha un tempo funzionale all'omaggio. Il rito dell'arte ha permesso di rievocare un mondo e permetterà di lasciarlo andare e tornare a sè.
Maurizio riporta dal luogo d'origine alcuni oggetti, frammenti, minimi reperti di archeologia contadina, essenziali e, fuori dalla loro funzione, quasi astratti. Nulla che non potesse fare da solo o trovare qui, ma proprio in questa vanità è il senso del rituale. Li prende, li lavora al minimo e li sistema sotto alle ultime tele togliendoli ad un uso passato per un uso presente. Questo movimento, dal luogo di elezione allo studio , ha il sapore di un’inversione di rotta nel viaggio sin qui intrapreso e a indicarlo è anche l’uso che Maurizio fa di questi reperti . Oggetti crudi ed essenziali, che ricordano materiali arcaici da rituale funebre, un’urna e un grande portacandele , dimora l’una e omaggio continuo e vitale l’altro al mondo di queste visioni.
Chiuso il cerchio, tornati dal "viaggio" , tutto può tornare a scorrere: il tempo, la storia, la narrazione.
Della stessa sostanza della notte
Umbra profunda sumus. G. Bruno, De Umbris Idearum, 1582
Una forza lieve e determinata è nelle opere di Maurizio Pierfranceschi. Lievità e determinatezza sono nel modo con cui riesce a portare i materiali, da quelli più solidi a quelli meno resistenti, nella direzione del proprio lavoro; nel modo con cui convince l’instabilità della tempera diluita a prendere forma, a dare struttura alle immagini che, fluttuando, arrivano fino a noi; e ancora nel modo con cui riesce a convincere il legno a essere maltrattato dal fuoco, a subire una pennellata di colore e a farsi scolpire fino a raggiungere la leggerezza di un velo ricamato. La delicata forza di levare che mette nelle sculture, matrici imprecise che potrebbero essere utilizzate all’infinito, ha il suo contraltare nella via di porre della pittura, composta di infiniti strati di velature ombrose che nei lavori degli ultimi anni lasciano affiorare un brulichio sommesso di piccoli esseri animati. Pur nella distanza dei materiali utilizzati, l’evidente continuità tra le opere dichiara per delicati contrasti la necessità di mettere in dialogo alcuni degli opposti propri al linguaggio artistico (vuoto-pieno, forma‐informe, animato‐inanimato, luce‐ombra). Tutto è sfumato, intuito, appena percepito, ma stranamente perentorio. Le immagini che si danno ai nostri occhi sono immerse in un’atmosfera che oscilla tra la malinconia e la vitalità, tra l’evidenza e l’enigmaticità. Forme arcaiche che da un tempo senza storia arrivano nel presente e che riconosciamo come nostre.
Notturni
La notte è il regno delle ombre, e queste sono ciò che rimane della luce. Riconoscere il mondo delle ombre è stato già per gli antichi un prendere atto di qualcosa di oscuro e non controllabile ma non a caso si formò la leggenda che faceva nascere la pittura (e la scultura) dalla traccia di un’ombra su una parete. Si poteva avere fiducia nelle proiezioni di ombre perché queste venivano considerate un processo naturale di geometrizzazione del reale e quindi non così fallibile come le azioni dell’uomo. Ma il mondo rappresentato in ombra non lascia mai indifferenti, soprattutto quando è totale modulazione di colori monocromi evoca sempre atmosfere, memorie del nostro sottosuolo, misteriose presenze perché pur avendo forme date dagli oggetti e dalla luce, sembra avere una vita autonoma, una presenza che è anche un’assenza. I teleri di Pierfranceschi accolgono ampi paesaggi di boschi notturni che sembrano più che altro stati d’animo (dove, come nella serie di Boccioni, è lo spettatore al centro dinamico delle sensazioni). I legni offrono particolari ingranditi che aiutano a focalizzare con maggiore chiarezza alcuni elementi nascosti nell’indefinibile atmosfera dei dipinti. Prevale un senso di sottile inquietudine che attrae e immobilizza. Si prova lo stesso senso di sorpresa che dovevano avere i primi spettatori dei diorami fotografici, dove un qualsiasi brano di realtà era trasfigurato in immagini di consistenza effimera ma evocativa. Le proiezioni d’ombra dei primi esperimenti ottocenteschi creavano situazioni immersive e spaesanti, cariche di meraviglia. È così per i boschi d’ombra di Pierfranceschi, frammenti di un mondo in cui gli esseri presenti sono sorpresi in un attimo di sospensione che sembra possa durare per sempre. Le figure silenti mandano segnali di richiamo. Flebili voci che dall’intrico di rami si levano e pretendono attenzione. Un invito a entrare, attraverso un coinvolgimento sinestetico, in quel mondo che si dà e si nasconde, di cui si sentono i battiti e il pulsare di vite seppellite sotto velature acquose di umori umidi, come solo nei boschi di notte. Una vita nascosta, esseri còlti in stato di quiete che si volgono a noi senza spavento. C’è un invito in quegli occhi che ci guardano, un velo di inquietudine non lontano dal turbamento che destabilizza i personaggi di Pontormo o di Rosso Fiorentino. I sussurri che sentiamo provengono dagli sguardi di quelle creature. È così che capiamo quanto l’atto del vedere (guardare, osservare) sia il primo momento del comunicare. E senza sguardo l’arte non sarebbe. La sensazione di essere guardati - e chiamati - è la prova di essere lì a condividere quello spazio e di far parte di quell’atmosfera notturna che piano piano ci avvolge. Dal grigio al blu e ritorno. Anche noi ci sentiamo grigi e blu. Notturni anche quando, per il momento di un solo dipinto, il colore è un giallo solforoso con sfumature cangianti che ci introduce in uno spazio deserto ma ancora abitato, illuminato da una luce incerta e desolata. Nell’epoca delle ibridazioni cyborg, delle metamorfosi alchemiche tra corpo-macchina-oggetto, le figure che abitano il luogo ‐ che possiamo definire sì un bosco ma che potrebbe essere un fondo marino o l’antro di una grotta, o ancora il luogo di un sogno - appaiono in uno stato pre o post umano, nel momento della metamorfosi tra animale e uomo (o viceversa) in cui l’uomo condivide con l’animale lo stato di natura. E tutto deve ancora accadere o forse è già accaduto. È l’origine e la fine.
Trame
Nelle immagini scorgiamo mappature nascoste che, ricomposte attraverso piccoli indizi, sono lì per essere subito dimenticate. Quando sembra di aver ricostruito una trama si inizia subito a pensare ad altro, a dare un nome a una forma o una funzione a un segno. Gli alberi sono il reticolo portante, tutto il resto è di passaggio. Accade lo stesso con le carte geografiche dipinte da Vermeer nei suoi quadri, in cui, volendo, sappiamo riconoscere il territorio rappresentato ma siamo poi rapiti dal fascino dell’insieme e non ci interessa più capire cosa è rappresentato ma quello che ci evoca. Le trame impalpabili danno la possibilità di veder riassunti ampi territori del nostro sentire da segni che rimandano con la forza dell’analogia ad altro. Leggere una mappa evanescente, trovare una collocazione effimera, ha bisogno di tempo è un iniziare e poi un ricominciare. Un gioco che non porta a definire con certezza ma che anzi si basa sui dubbi e sugli enigmi. I paesaggi d’ombra dichiarano una conoscenza profonda ma dissimulata del luogo in cui ci troviamo, un luogo di margine dove le cose non appaiono così evidenti e delineate ma solo accennate e presunte. La nostra parte in ombra di junghiana memoria.
Tempo
Il grande protagonista di questi lavori è il tempo. Una lenta costruzione del tempo. Il tempo della coscienza che non attraversa le strettoie di passaggi logici ma è fatta di lampi e di piccole acquisizioni. Ci vuole tempo per entrare negli spazi dei dipinti e tempo per scoprire sotto le velature altre forme e altri segni. Trovare la propria posizione rispetto alle opere è entrare nel loro ritmo per comprenderle.
Gli oggetti di compagnia, due oggetti in legno appoggiati su stretti sostegni di quercia posti sul pavimento di fronte ai grandi teleri, hanno la stessa funzione delle predelle delle antiche pale d’altare. Sono lì a completare il racconto dei paesaggi. Aggiungono con la loro semplice presenza una diversa prospettiva, un allontanamento dall’immersiva ombrosità dei dipinti. Oggetti di mediazione tra tempi e situazioni diverse: il loro arcaico uso contadino e la loro presenza simbolica che prende forza dalla loro nuova funzione. Oggetti enigmatici e evocativi di una dimensione atemporale e per questo sempre contemporanea. Oggetti scelti dall’artista a cui noi possiamo attribuire uno per uno o assieme diversi significati. Sono lì e forse ci osservano anche loro, creando un dialogo nel nostro presente.
Time present and time past Are both perhaps present in time future, And time future contained in time past. If all time is eternally present All time is unredeemable. (T.S. Eliot, Four Quartets 1943).
gennaio 2014
Alfredo Zelli
Anzi tempo
Nessuno è protagonista, convivono, nessun primo attore, nessuna drammaturgia disegna temi principali e secondari, definisce primo piano e sfondo. Tema dell'opera è questo insieme senza gerarchie. In un mondo compatto e silenzioso dove l'azione è ridotta al minimo e bandita la narrazione, quella breve della cronaca o quella larga e distesa della storia, il senso di ogni elemento è stare, esistere. Così, bloccate, queste visioni si ritraggono in un fuori tempo da memoria ancestrale o anticipazione utopistica. Dell'utopia però non hanno la solarità, il nitore, l'ansia formalizzatrice del progetto. Tutto esiste, in un'atmosfera plumbea, un'ora indefinita, tra giorno e notte, una "non ora" senza volontà o disegno. Memoria ancestrale quindi, di una condizione, uno stato, un modo di essere rievocato in un'ora da sogno o dormiveglia.
Questa memoria però, per quanto atemporale non è solo astratta e poetica. C'è un luogo di evocazione da cui parte questo viaggio a ritroso: un nodo di case incastrate nell'appennino umbro-marchigiano, geografia consueta nelle opere di maurizio, e borgo d'origine della sua famiglia, deposito di una densa memoria collettiva, arcaica e contadina che egli fa sua e spinge indietro, prima degli atti e i giorni, al momento formativo, quando le cose trovano posto. Descrive così una condizione originaria di coesistenza assorta e silenziosa tra gli elementi fondamentali del mondo: natura, animali e uomini. Non cè Arcadia però in queste visioni, nessuna utopica età dell'oro. In questo "stare" di tutto e tutti cè un che di ineluttabile, un'accettazione da animali, paziente e passiva del mondo, perchè già nello stare è tutto il loro essere, non hanno bisogno di agire per esistere, "sono" e basta, come gli alberi. Opere come fotogrammi, frammenti di un mondo scelti ma non unici, lo sguardo potrebbe muoversi verso un colle o dietro un albero, e troverebbe altri uomini e animali che, in questa luce incerta, prenatale, sostano, senza aspettare nulla, osservano, annusano l'aria, se stessi e le cose e ancora "sono", prima che inizi il tempo, la storia e la narrazione.
Ma la memoria ha un tempo funzionale all'omaggio. Il rito dell'arte ha permesso di rievocare un mondo e permetterà di lasciarlo andare e tornare a sè.
Maurizio riporta dal luogo d'origine alcuni oggetti, frammenti, minimi reperti di archeologia contadina, essenziali e, fuori dalla loro funzione, quasi astratti. Nulla che non potesse fare da solo o trovare qui, ma proprio in questa vanità è il senso del rituale. Li prende, li lavora al minimo e li sistema sotto alle ultime tele togliendoli ad un uso passato per un uso presente. Questo movimento, dal luogo di elezione allo studio , ha il sapore di un’inversione di rotta nel viaggio sin qui intrapreso e a indicarlo è anche l’uso che Maurizio fa di questi reperti . Oggetti crudi ed essenziali, che ricordano materiali arcaici da rituale funebre, un’urna e un grande portacandele , dimora l’una e omaggio continuo e vitale l’altro al mondo di queste visioni.
Chiuso il cerchio, tornati dal "viaggio" , tutto può tornare a scorrere: il tempo, la storia, la narrazione.