MAURIZIO PIERFRANCESCHI
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2008 Antico e novissimo

Francesca Bottari

Studi aperti, La settima parete,
Sotto e sopra-Rampa Prenestina, Roma.
Antico e novissimo, Cagli.


Una collettiva. Dov'è la novità?
Nella splendida Cagli si tiene una collettiva di arte contemporanea in una dimora antica, come non di rado avviene. Sei artisti che lavorano insieme a una mostra in un palazzo storico, dunque. Fin qui, nulla di inedito.
Eppure non è la prima volta che Laura Barbarini, Claudio Givani, Oreste Casalini, Maurizio Pierfranceschi, Vincenzo Scolamiero e Alfredo Zelli progettano un'iniziativa corale, né sarà l'ultima. Ecco una prima variante rispetto alle esposizioni a più mani cui siamo abituati.
Il gruppo non è, infatti, frutto di una posizione critica che nei linguaggi dei sei ha individuato omogeneità stilistica o affinità di intenti, o che li ha riuniti in vista di una scelta tematica a priori. La loro storia è ben diversa; anzi è la storia stessa a nutrire i motivi di un cammino, di una ricerca comune.
La mostra, dunque, sta in loro, nella loro alleanza - per alcuni un'amicizia ventennale -, nello sforzo di accomunare obiettivi morali, fondamenti della propria vita espressiva, necessità pedagogiche o etiche.
E nella felice constatazione che sia possibile.
Per molte ragioni essi hanno deciso di tornare a lavorare insieme, a cercare occasioni, a confrontare indirizzi espressivi, moti interiori, riferimenti figurativi, scelte di vita. Poi a immaginare per se stessi una cornice espositiva o un campo di sperimentazione. Infine a trovare le voci giuste -critiche, storiche o chiamate a mediare -che ne accompagnassero il processo, le tappe espositive e perfino la strategia comunicativa.
Il nucleo che si è venuto a formare, in questo cammino che ricorda le botteghe rinascimentali o le accademie emiliane del Seicento, ha fatto dello scambio, dell'amicizia tra artisti, critici, mediatori, grafici, esperti di comunicazione e della rete, la sua stessa ragione d'essere.
Di questa vicenda collettiva, un viaggio ancora in corso, vogliamo parlare.
Intanto, abbiamo chiesto agli artisti il senso di questo "noi", la qualità e il carattere del singolare sodalizio.
Le risposte sono state apparentemente diverse, ma nella sostanza affini. Se alcuni guardano a questa alleanza con fiducia, ma anche con distacco, altri all'opposto vi riconoscono gli estremi di un micro-cosmo creativo, un luogo in cui gli animi possano placarsi nel calore della condivisione e dedicarsi alla contemplazione o a un confronto protetto e produttivo. C'è chi ha descritto il lavoro insieme come un casa in cui ognuno arriva con le sue valige; e dove, se la coabitazione funziona, gli spazi della solitudine e del lavoro comune si avvicendano fruttuosamente; e i visitatori sono attesi e accolti con calore.
Ma per tutti e sei (e riteniamo che in questo si celi il segreto di questa non-collettiva, l'originalità di un'inesplorata "prova di autori") il punto non è né l'indubbia amicizia, che attraversa le loro relazioni interne con le innumerevoli cangianze degli stati d'animo, né la forza di una ricerca collettiva (carattere troppo giovanile, questo, della sperimentazione).
Il punto è, invece, la simpatia e la stima nei confronti del lavoro degli altri, il piacere di procedere accanto e di aspettare con fiducia quali frontiere gli amici stanno esplorando. L'ammirazione che l'opera di un compagno può generare in ciascuno, lo stimolo che se ne ricava, la bellezza di un'impresa che reciprocamente arricchisce, aiuta a capire, mostra direzioni, scenari.
È l'empatia espressiva, insomma, che tiene i sei artisti vicini, complici. E chi segue questo loro percorso, non può che registrare la totale assenza di ogni calcolo; mai uno sguardo obliquo sul lavoro altrui, mai il timore che un bel risultato possa oscurare quello degli altri.
In un'epoca di presunti "eventi" (artistici, enogastronomici, mediatici, di moda o costume) questa comunione di scelte interiori che i sei rappresentano ci dà una bussola, ci aiuta a intendere il senso di questa mostra e a leggere con serenità e calma il pentagramma di un canto a più voci, coinvolte in un unico coro.
Tra i sei, c'è chi sa illuminare la poesia in una fenditura della parete o in un petalo di giglio; chi sa dare consistenza spaziale ai sogni e alle ombre; chi sa mostrare a volo d'uccello i colori e le forme della crosta terrestre; chi trasforma la più nobile pratica pittorica in grandi scenografie; chi lascia vivere e danzare nello spazio sagome lignee o la materia più comune e sterile; chi innalza eroi e sante dalle dimensioni vertiginose come burattini di un prestigiatore.
Non più una collettiva, lo ripetiamo, ma i lavori di artisti diversi, ma preziosi gli uni per gli altri, accomunati dall'ammirazione reciproca e dalla forza che una ricerca alleata garantisce a ognuno di loro; e a chi voglia recarsi in visita in questa casa comune che essi hanno scelto anche per noi.


A Cagli, una sosta di un viaggio
Questa singolare prova, dunque, a Cagli vede la sua prima espressione istituzionale e autorevole.
L'esposizione dei sei artisti, tuttavia, non può essere letta con gli strumenti tradizionali, sebbene si presenti come una rassegna dai caratteri della più pura tradizione. Le sale di una bella dimora storica, alcuni lavori a testa, il catalogo, i contributi critici, l'ufficio stampa. Eppure l'illustre ospitalità della cittadina marchigiana non segna che un momento importante di un viaggio ben più ampio.
Un viaggio che, dopo singoli trascorsi professionali dettati, se pure in diversa misura, dalle regole dell'accademia e del mondo delle mostre e delle gallerie (non sempre così conformi al desiderio di utenticità che brucia il cuore degli artisti), ha visto i nostri sperimentatori alle prese con situazioni espositive desiderate, cercate e costruite.
In questo cammino Cagli è un'occasione in cui misurarsi rispetto alla maturazione del proprio linguaggio e all'ufficializzazione della bottega itinerante.
E poi Cagli è, come lo stesso nativo Pierfranceschi suggerisce, un luogo di sosta per antonomasia sul tracciato della via Flaminia, ristoro nei lunghi viaggi per truppe e animali. Anche per la nostra piccola truppa, dopo l'energetico shock della mostra romana alla Rampa Prenestina tra writers e colori acidi, la tappa marchigiana è un momento di riposo, un riconciliarsi degli artisti con la dolcezza del paesaggio italiano, con la misura delle proporzioni architettoniche del Rinascimento, con la naturale armonia che le dimore
storiche in pietra regalano a chi vi alloggia il frutto del proprio lavoro.


L'habitat
Fin dai nostri primi incontri, l'ambiente in cui "mostrarsi", nel senso di mettersi in mostra, è apparso fondamentale. Ha preso a contare quasi come le opere. Come un gatto che gira e rigira nell'acciambellarsi, ognuno degli artisti ha sentito l'esigenza di accomodarsi, prima di avvertire un luogo comunque proprio e accucciarsi a lavorare.
Dove è nata questa necessità?
Non certo nella prima fermata del viaggio: una stagione di Studiaperti (a turno gli atelier dei sei artisti, con l'aiuto organizzativo degli altri) in cui lo sforzo comune di selezione ed esposizione di lavori è stato un bel banco di prova. Tra gli esiti positivi, il pubblico, buon credito, tanti passaggi, riscontro nei media, circolazione di idee e di suggestioni. La certezza di essere sulla strada giusta, conforme alle aspirazioni di tutti.
Né l'esigenza di adattarsi all'ambiente è emersa nella seconda occasione espositiva. Una prima collettiva - detta La settima parete per un muro su cui i sei hanno lavorato su stessi formati e tecniche - tenutasi nel nuovo studio di uno degli artisti, divenuto scintillante galleria autogestita, senza l'ingombro di cornici critiche e ufficio stampa, nella piacevole libertà di decidere insieme cosa fare e come. L'habitat dell'atelier Scolamiero, in quel caso, è stato caldo e accogliente, a misura d'uomo e di gruppo. La difficoltà di adeguamento, piuttosto, ha rivelato una prima crisi di intenti, nel caso del terzo, più duro, cimento.
Laddove l'ambiente, se pure consapevolmente scelto, si è poi mostrato estraneo, indecifrabile, per alcuni quasi ostile.
Così, alla Rampa Prenestina di Roma - una sorta di globe theatre metropolitano - la rassegna di lavoriè divenuta una stimolante contesa tra generazioni, tra tempi di ideazione, tra volontà creatrici ed esiti conclusivi. I sei artisti hanno dovuto infatti confrontare le loro opere con l'espressione figurativa più aggressiva dei nostri strani e confusi tempi: il segno veloce e autodistruttivo dei writers di strada, i loro colori acidi e urlati, le loro cifre senza spazio né tempo. I graffiti popolavano la rampa elicoidale in cemento armato, trasformata in un laboratorio aperto dove essi lavoravano insieme e sotto gli occhi di chi vi si recava; e poi in concitata estemporanea di un giorno.
Una sfida di primissimo piano. Dai cui esiti dipendeva se proseguire o meno, se avere accumulato un equipaggiamento adatto all'impresa, oppure se accettare che il mondo dell'arte esposta fosse altro.
Forse un dominio di eletti, di creatività, ricerca e solitudine, in cui si formuli un linguaggio per pochi iniziati, un codice di comunicazione e comportamento a sé stante e per questo sottoposto, nella sua convivenza con il resto della realtà, a mediazioni consolidate, a circuiti accreditati e socialmente riconosciuti.
Lo sforzo compiuto ha invece mostrato l'energia positiva e l'intatta autonomia di ognuno degli artisti, la capacità di occupare insieme uno spazio, qualunque spazio, con la forza trasfigurante dell'arte, dell'immaginazione e della poesia.
Dopo la mostra affollata e allegra lungo la salita ellittica grondante di graffiti della Rampa Prenestina, nella dimora storica di Cagli il senso della tradizione e della continuità erano finalmente legittimati, anche per essere stati desiderati e attesi.


L'inattualità volontaria dei sei alleati
S'è detto che il tratto comune dei sei artisti, più che nella ricerca figurativa consiste nel comune sentire.
Ma di quale comunanza parliamo? Le riunioni di preparazione hanno mostrato a noi attenti uditori che le questioni più delicate si articolavano intorno al senso di esprimersi, oggi, attraverso l'arte; di farne veicolo di convivenza sociale; di coglierne e sollecitarne l'alto valore pedagogico; di porsi, in ultima analisi, il problema dell'inattualità delle azioni compiute. Quell'inattualità che dà il coraggio di rinunciare - in nome dell'autenticità, della pienezza di una ricerca condotta anche in relazione alla propria vita - alle chimere modaiole, al venire a patti con l'esigenza del pubblico o al ripercorrere cifre e stilemi già sperimentati solo perché assecondano le richieste di galleristi, compratori e mercanti. I ricordi e le trascrizioni di quegli incontri si intrecciano ed emergono, avvicendandosi. In una serata, Maurizio Pierfranceschi parlava dei suoi
compratori. E ricordava come con ciascuno dei suoi collezionisti si fosse sostanziato un colloquio, un'attesa, un patto di fiducia. La stessa che spinge costoro ad attendere pazientemente, per diverse ragioni, di poter acquistare un'opera ed esorta lui a lavorare pensando a loro. In una dimensione umana, affettuosa, stimabile.
E poi si discuteva del passato, della tradizione e, ancora, dell'inattualità di certe azioni. Per tutti il passatoè la sostanza della ricerca. Maurizio vorrebbe che chi ama i suoi lavori amasse, con essi, l'esigenza profonda di storia e memoria che muove il loro ideatore nel farli nascere, nell'inseguirne l'apparire, nel gustarsi e accompagnare il loro prendere forma. C'è un sapore antico nelle sue pozzanghere, che sembrano generate dalla terra stessa, trasportate nello studio da chi conosce bene la natura e sa trattarla, senza rubarle vitalità. Ed esse arrivano, immense, larghe, umide, a mostrarci panorami dal satellite, porzioni di crosta terrestre e fiumi carsici, tramonti specchiati delle pozze d'acqua e argilla riarsa dal sole. È lo stesso nelle sue enigmatiche forme - siano steli, fronde, arbusti o trasparenze di alberi -che assumono volatili sembianze umane, ombre mobili e apparizioni. In Pierfranceschi la terra, il talento alchemico di chi sa manipolarla, il passato personale, famigliare, della sua gente e della cultura artistica che ne ha sostanziato le tradizioni, sembrano continuamente integrarsi, scambiarsi suggestioni, correre insieme verso un'epifania che dalla pratica artigianale e dalla memoria artistica trae sostanza e forma.
Nell'attico della Rampa Prenestina la sua grande pozza acciuffava il cielo, costringendolo a varcare i muri di cemento armato e a riflettersi nelle luci dell'azzurro e a spegnersi nei bruni delle terre.
"L'armonia oggi è solo col mondo. Non più con le nostre singole storie". Maurizio si dichiarava, qui, cosciente medium tra la pittura e la realtà delle cose. Un medium esemplare o animato da una volontà comunicativa, formativa? In questo ambito Pierfranceschi e Scolamiero, i cui intenti generali appaiono spesso affini, divergono sensibilmente. Entrambi perseguono l'idea che la loro ricerca non può essere fine a se stessa, chiusa in una dimensione creativa, ma esige interlocutori, coltiva un profondo scopo esplorativo e didattico verso i più giovani. E in questo risiede la custodia della tradizione e la sua riattualizzazione.
Ma per Maurizio ciò deve awenire in forma esemplare, senza esplicita volontà comunicativa, mentre Vincenzo - per il quale l'insegnamento è la radice della sua esperienza - non rinuncia mai a orientare la sua indagine espressiva in ragione della trasmissione di valori, di una pedagogia attiva e responsabile.
Pierfranceschi è un pittore. Ha anche un trascorso plastico, lavora la pietra e il legno con pathos, sobrietà e grande controllo della forma, ma resta un pittore. Il suo pensiero figurativo prende sostanza sulla superficie, e da lì si amplia a dismisura, s'allarga intorno, copre spazi imprevisti. Il grandangolo del suo sguardo è sempre più vasto, sulle ridotte e sulle grandi dimensioni. Può riempire interi muri con carte dipinte a formare un affresco della natura, come concentrare il piano di proiezione su sagome geometriche rilucenti di colore puro, senza ombre né contorni. Le superfici, sui lavori di Maurizio, sembrano sempre palpitare, respirare: sia se mostrano figure silenti, animate da piccoli gesti e da sguardi assorti, e sia se sono invase da fronde, canne, acqua, nebbia densissima o lievi raggi di sole.
Quando poi stende le cromie, Maurizio, svela una competenza da veneto del Quattrocento, combinando toni e timbri, lasciando risuonare i complementari con i saturi, innestando reazioni cromatiche che si ricompongono nella retina di chi guarda. Se invece lavora sui monocromi, sfilaccia i pigmenti e spiana una tela di ragno densa e pastosa, lasciandola muoversi, ondeggiare sulla superficie.
Sulle pareti di Cagli sono ben testimoniate alcune di queste sue mescolanze mobili, filamentose e misteriose, che danno vita alla materia inerte.



Michela Scolaro

Ben sanno i sociologi che l'età contemporanea alimenta e soffre il culto dell'individuo. "Hablo dell'unico, del uno, del que siempre està solo" scriveva Jorge L. Borges ne L'oro delle tigri. Scopritore, fondatore, condottiero, geniale scienziato o artista, colui che, realizzando se stesso, opera a beneficio della collettività, sconta con l'isolamento la pienezza dei suoi magnifici doni.


Il Tao d'origine genera l'Uno,
L'Uno genera il Due,
Il Due genera il Tre,
Il Tre genera i Diecimila esseri.
I Diecimila esseri indossano lo Yin,
Abbracciano lo Yang,
Accedono all'armonia
Grazie al Respiro del Vuoto intermedio.



Sono meno distanti di quanto potrebbero parere i versi dell'omero contemporaneo e quelli dell'antico Libro dei Mutamenti. Dal cuore profondo dell'oriente e dell'occidente parlano entrambi di creazione, di individualità eccezionali e feconde e di accordo, di sintonia con l'altro. E con l'ambiente circostante.
Sconcerta rilevare che è già passato più di mezzo secolo da quando Francesco Arcangeli,
critico militante, storico esistenzialista, professore universitario e poeta, scriveva sulle pagine di "Paragone" del senso "del due". Rivendicava la necessità - per la vita, per l'arte - di istituire un rapporto diretto, immediato, preludio inevitabile a una comunicazione autentica e significativa. Tra le persone e con le
cose. L'unico, l'uno, il solo, in quegli anni di difficile dopoguerra, che scontavano con i lutti e le macerie l'illusione collettiva del fascismo e le sue tragiche conseguenze, si era già scoperto ferito a morte, abbandonato a se stesso, prigioniero di un'individualità incapace di attingere, oramai, perfino alla solidarietà precaria del pericolo e della sofferenza comuni.
Nel calore di quell'estate lontana Arcangeli, col senso di una rinnovata urgenza, ricercava le trame sottili di una rinascente possibilità di sintonia, l'eco almeno di una risposta nel lavoro di alcuni artisti, che sapeva impegnati con lo stesso obiettivo, diventati per lui "la compagnia più emozionante e attiva...".
Voleva fare qualcosa per loro, invidiati perché senza obblighi nei confronti del "senso logico delle parole che mi tocca mettere in carta", perché "dentro la vita" senza esser costretti a definirla, perché "dopo tanto che guardo quadri, del passato e del presente, non è molto che sento, per opera loro, il fatto del dipingere
ancora attivo, intimo alle mie giornate, partecipe della mia sorte [...]". A renderli vicini, fraterni, tra loro e con Arcangeli, era una condivisa tensione al rapporto, quel senso del "due", appunto, che è relazione con il mondo circostante, che non esce "fatto dal loro pennello. Lo ricevono, lo amano, lo patiscono.
L'aria, la stagione, la vita della carne, la vita dello spirito [...]". E ancora, spiegava lo studioso, senso del "due" è: "la religione della natura, Dio incomprensibile, mistero da patire ogni giorno, da riamare eternamente, nelle apparenze e nella sostanza".
Oggi sei artisti si confrontano con le stesse, irrisolte esigenze. Tentano, in altri modi, sono donne e uomini già di un nuovo millennio, di stabilire il medesimo accordo. A muoverli, tuttavia, riconoscibile, è la stessa ansia, ad animarli la stessa bruciante passione.
Oggi, ancora, come allora, a dare ragione e impulso al loro lavoro è la volontà di provare a rifondare un dialogo, recuperandone il valore più autentico, profondo, il significato originario di pensiero che si trasmette, discorso che lega l'io all'altro, agli altri, e conduce a un arricchimento reciproco, a una conoscenza nuova.
Di sé, dell'altro, del tempo e dello spazio in cui si vive, si opera.
Discorso, logos, verbo, sinonimi che salvano davvero perché implicano oltre a un ritrovato senso "del due", insieme allo scambio, la comprensione, cioè la tensione a includere, la determinazione perentoria a non rinunciare a nulla. Allora, al contempo, antico e novissimo, luce e ombra, dentro e fuori dalla storia,
dalla realtà, dalla memoria, voce sola e orchestra, protagonisti assoluti e comprimari, nel cuore pulsante della metropoli, al centro delle capitali, e nei piccoli borghi dal ritmo sospeso, smarriti nei rituali millenari dell'incisione, della pittura, della scultura quanto sicuri internauti, adepti della tecnologia più
avanzata. Le conferme che non ottengono oggi, le forniscono loro i molti, straordinari, diversi maestri di ieri, interpreti di culture fiorite a ogni latitudine, sotto tutti i cieli, e sempre senza contrasto, senza alcuna contraddizione. Perchè qui e ora, volendo, può dilatarsi a comprendere, a riunire, a far rivivere i più distanti allora e altrove.
Si chiamano Laura Barbarini, Oreste Casalini, Claudio Givani, Maurizio Pierfranceschi,
Vincenzo Scolamiero, Alfredo Zelli, hanno origini, provenienze e storie diverse, si sono incontrati a Roma, dove risiedono prevalentemente e lavorano. Per usare ancora le parole di Arcangeli "non sono un gruppo [...] meglio così, e c'è da augurarsi che non si organizzino mai. Perché la schiettezza del loro lavoro a venire è già garantita; in gran parte, dalla spontaneità dei loro risultati recenti...". Sono giovani, d'anagrafe e di spirito, ma non troppo. Vale a dire, hanno una fisionomia definita, una voce riconoscibile e un percorso alle spalle che testimonia della qualità e della coerenza del loro impegno. Ma ancora non temono di mettersi in gioco, accettano le sfide, pur avendo già tanto da rischiare. Sanno, inoltre, di avere davanti un lungo cammino da compiere, ma nelle loro opere non sono più solo promesse da mantenere, bensì realtà accertate da continuare a crescere, da sviluppare ulteriormente. Con il conforto di non essere soli.
Specchio, riflesso di sé nell'altro che si moltiplica, che si trasforma col mutare della prospettiva. Esce di fuoco, sfuma o si precisa a seconda dell'intensità dello sguardo, della natura della superficie a cui si rivolge: lucida o liquida, profonda o impenetrabile. Riflesso che rassicura e conferma, che raddoppia e tormenta: è la domanda che torna di rimando o è una risposta? L'altro è l'io di Rimbaud, multiforme, sempre da scoprire o l'inferno di Sartre, baratro insondabile, sempre da fuggire? Limite della libertà individuale, dell'essere per sé o garanzia della sua espansione? Certo è che nella reale solitudine di questa società virtuale, di nicks che occultano i names, di second lives più curate, più seguite e appaganti delle prime,scegliersi sulla base di un tratto comune percepito, accostarsi, cercare il confronto e la sintonia per perseguire un obiettivo condiviso, appare tanto inconsueto quanto importante e significativo. Ed è altrettanto certo che è più difficile accordare le voci, o calibrare, smorzare le dissonanze per dispiegare la melodia, che lanciarsi nella pur vertiginosa avventura dell'assolo.
I sei artisti dei quali stiamo parlando accolgono entrambe le sfide, nelle sale con volte e stucchi di palazzo Mochi-Zamperoli, a Cagli. Sei stanze più una, ma non sono altrettante personali e una collettiva, bensì dialoghi, relazioni, sguardi scambiati e riflessi, trame intessute a doppio e triplo filo.
Una dopo l'altra le parti si dispongono insieme a formare il tutto. Sette è il numero sacro per eccellenza: rappresenta i giorni della creazione e del riposo divino. È divisibile solo per uno e per se stesso, quindi, è simbolo di ritorno all'unità. Come conferma la composizione di 3 e di 4, principio maschile e femminile insieme, dei tre livelli - corpo, anima e spirito - uniti alle quattro qualità della coscienza - pensiero, sentimento, intuizione e sensazione. Simboleggia, inoltre, l'accordo tra la trinità e il mondo, composto da quattro elementi. Sette sono le gerarchie angeliche, i cieli, i gradi della perfezione, i petali della rosa e i rami dell'albero cosmico, i colori dell'iride, le note sul pentagramma, i pianeti conosciuti nell'antichità, che reggevano le sorti dell'uomo, e i centri di vita, i chakra, attraverso i quali si esercitano i poteri dell' "aprire" e del "chiudere" ... Il sette sancisce il ciclo completo. È la perfezione dinamica che comprende il cambiamento.



L 'Antico e il novissimo.

... l'acqua contende alla terra il ruolo da protagonista nelle opere e, prima, nel pensiero di Maurizio Pierfranceschi. Proprio come succede nella sua terra d'origine, in cui si accordano, spartendosi lo spazio, il mare e le montagne e nel giro breve di pochi chilometri cambiano mentalità e storia, inflessione linguistica, clima, abitudini e perfino fisionomie.
Da questo continuo trascorrere delle cose, da questo incessante trasformarsi degli elementi, Pierfranceschi deriva ansia e ispirazione, come testimoniano i suoi lavori. Dai paesaggi ricreati nelle stagioni passate, composizioni impostate sulla verticale, fitti di erbe, alberi, piante, o dall'accumulo in orizzontale di sedimenti stratificati, è passato poi a studiare, a ripercorrere lo stesso processo dinamico individuato all'origine del tutto. Se prima le asperità della tela complicavano e organizzavano la pittura di Pierfranceschi, cuciture e giunzioni che valgono da sole come precise dichiarazioni di poetica e di ascendenza artistica, oggi il supporto ha sviluppato altre potenzialità, assunto un ruolo e una collocazione nuovi. Più ampio, senza telaio, steso sul pavimento, accoglie con il gesto dell'artista, il colore stemperato nell'acqua e lasciato scorrere per far emergere, a poco a poco, territori inediti. Lands of nowhere. Non c'è nulla dell'eroismo pollockiano nell'operazione compiuta da Pierfranceschi. Più che agli elementi, infatti, la sua pare una sfida contro se stesso, obbligato a vigilare e pazientare seguendo il moto dell'acqua sulla tela.
Certo, l'artista ne orienta il percorso ma accetta come ineluttabile I'espletarsi del lento, inesorabile e imprevedibile processo di evaporazione, in una pratica che somiglia davvero a un tormento autoinflitto.
Solo allora, valutati i risultati dell'interazione tra il controllo e il caso, il pigmento più o meno prosciugato, l'aria, l'acqua e la superficie accidentata dall'ondulazione, possono intervenire altri gesti, nuovi colori,
si possono esplorare ulteriori possibilità di essere, di esprimersi, nell'agire. Nel rispettare i tempi, la natura stessa degli elementi chiamati a prender parte alla creazione è un eroismo effettivo, meno evidente e bruciante rispetto a quelli più conclamati, più antico verrebbe da dire. Forse deriva a Pierfranceschi
dai secoli di civiltà dei quali si sente il responsabile erede, età che si sono avvicendate lasciando memorie tangibili nella sua terra natale, stretta tra la montagna e il mare. Il bisogno di spaziare al largo unito alla necessità di radicarsi, di sostare a lungo nello stesso luogo, coltivando la tenacia per veder crescere la pianta dal seme.



Vittorio Emiliani

Cagli esibisce, anche a chi la sfiora soltanto in automobile dalla Flaminia Nuova, la rotonda, poderosa mole del torrione firmato dal grande "ingegnaro e architettore" di Federico da Montefeltro, Francesco di Giorgio Martini, unico nobile resto di una ben più vasta e ardita rocca distrutta nella guerra fra il terribile Borgia, il Valentino, e Guidobaldo figlio di Federico. Siamo a pochi passi da Urbino, anzi fra Gubbio e Urbino, quindi in una terra fertilissima per le arti, dove i cantieri si alzavano numerosi per opere durate nei secoli e dove artisti d'ogni genere sono nati e cresciuti numerosi. A Roma passo spesso davanti alla imponente Cancelleria, bianca ed essenziale, opera di Donato Bramante (che non lontano tracciò Via Giulia giusto 500 anni fa). Entro nel cortile e ritrovo l'aria, gli archi, gli stilemi del Palazzo Ducale urbinate dove sono cresciuto. Lì vicino, alla Chiesa Nuova, c'è un bel Barocci e alla Pace un affresco fra i più affascinanti di Raffaello. E l'elenco potrebbe continuare significando quanto di cultura marchigiana, di quelle Marche alte vi sia ancora a Roma, soprattutto nella Roma rinascimentale. E come essa torni, anche più avanti, nel Settecento, quando un papa urbinate, un Albani, Clemente XI, governa e crea opere per oltre vent'anni e lascia due cardinali-nepoti protagonisti, Annibale e Alessandro, al vertice della diplomazia europea, e il secondo anche della cultura neoclassica, creatore di Villa Albani poi Torlonia, fuori Porta Salaria, avendo per casa, e per guida, nientemeno che Johann Joachim Winckelmann. E pensare che in origine gli Albani erano guerrieri albanesi, armati mercenari, che di nome facevano Lazj. Corsi e ricorsi della storia in un Paese cresciuto nei secoli sull'apporto delle più diverse etnie.

Come non ricordare qui Angelo Celli (Cagli 1857-Monza 1914), grande medico, studioso profondo della malaria e delle malattie del pauperismo? Celli, deputato repubblicano per un ventennio dal 1892, fu promotore di interventi legislativi e sociali straordinari sull'educazione all'igiene, sulla riduzione degli orari di lavoro, sui tempi di riposo. Insieme alla moglie, la tedesca Annie Fraetzel, a pittori quali Giacomo Balla e Duilio Cambellotti, a letterati come Sibilla Aleramo e Giovanni Cena, a poeti come Vincenzo Cardarelli, all'epoca critico d'arte dell'Avanti!, agì da pioniere nel desolato e malarico Agro Romano per crearvi, soprattutto nel periodo esaltante della giunta capitolina guidata dal mazziniano Ernesto Nathan (1907-1912), scuole per i fanciulli e pure per i contadini analfabeti. Si erano autodefiniti i "maestri garibaldini". Iniziative finanziate anche con la vendita all'asta di quadri di Balla (il ritratto di Tolstoi, ad esempio, e dodici vedute) e di ceramiche e altri oggetti di Cambellotti. Altri fondi vennero da famiglie della borghesia riformista romana e dalla stessa Maria Montessori, altra marchigiana (di Chiaravalle di Ancona), educatrice d'avanguardia nel mondo, allora attiva a Roma, particolarmente nelle scuole del popolarissimo e misero quartiere di San Lorenzo, zona di marmisti anarchici e socialisti. Fu Angelo Celli a volere la fondamentale Azienda per il Chinino di Stato e a promuovere la distribuzione gratuita del farmaco nei dispensari creati nelle lontane periferie e nelle campagne della capitale. Un italiano di grandi meriti politici, sociali e culturali, al quale molto deve, in particolare, Roma, e che ci testimonia bene cosa fosse la politica un tempo, quali ardenti passioni civili e sociali la animassero.

Questi sei artisti contemporanei ora in mostra sono tutti attivi a Roma. Uno di loro viene da Cagli, anzi da una sua ariosa frazione di campagna, il Poggio d'Acquaviva. Tutti però si dicono entusiasti di questa scelta di Cagli dove sono venuti lungo la consolare Flaminia partendo da Roma per giungere, press'a poco, ad Calem, a Cale stazione romana di sosta, piccolo borgo rurale, luogo di pastori transumanti, che diventa città nel Medio Evo, libero Comune fra signori della guerra come i Brancaleoni e i Siccardi, fino all'ascesa al Ducato di Federico da Montefeltro che da lì può meglio controllare la vicina Gubbio e vi fa edificare la grande e inventiva rocca col "soccorso coverto" per le bombarde progettate sempre dall'"ingegnaro" senese Francesco di Giorgio. Intorno a Cagli si alzano decine di castelli e di torri di guardia.
Nascono santuari con nomi poetici, come Santa Maria delle Stelle, tuttora attivo, e pure i monti prendono nomi guerrieri come Monte Martello. A Cagli c'è vita culturale, la prima appresentazione teatrale rimonta al 1585, una commedia del cagliese Bernardino Pino, il primo vero teatro è quello delle Muse eretto nel 1754 (c'è ancora il fabbricato che lo contenne) e l'attuale Teatro Comunale risale al 1878, è stato ben restaurato anni fa e svolge una intensa attività. Segni di una civiltà che non si spegne. Anzi.

***
Completamente diversa è l'estrazione, contadina, terragna, di Maurizio Piefranceschi, cagliese del Poggio di Acquaviva dove i suoi stanno o sono tornati a stare. Tipici migranti marchigiani a Roma. Ci sono stati, sì, i marchigiani che hanno formato il nerbo degli impiegati e dei funzionari dello Stato Pontificio prima e di quello Sabaudo poi, ma il popolo dei "burini" che arriva da lassù è fatto di manovali, stradini, muratori, carpentieri, in borgata, a Tor Tre Teste allora campagna aperta. Dai genitori - lui sempre per cantieri edili, lei sarta e rammendatrice - non poteva avere stimoli artistici. Ricorda ancora le notti passate a disegnare da solo in cucina, silenzi notturni carichi di suggestione. "Alle medie", confida, "copiavo le incisioni a griglia di Morandi e ingenuo mi pensavo architetto". Anche per questo i professori delle Medie fatte al quartiere Alessandrino gli consigliano il Liceo Scientifico frequentato a Centocelle copiando i cavalli di Franz Marc e pasticciando coi Van Gogh e coi Gauguin visti sull'Enciclopedia dell'Arte di Fabbri a dispense (un liceo dove non mancano scontri e conflitti, ci sono reclute delle Br, "alcuni ancora in galera adesso").
Una storia pasoliniana, dopo Pasolini.



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Intanto si conoscono e fanno amicizia anche Maurizio Pierfranceschi ed Enzo Scolamiero. I quali vengono da esperienze diversissime. Il primo ha frequentato per un po' Architettura, poi ha adempiuto agli obblighi di leva come guardia carceraria a Rebibbia, dove il "soldo" era maggiore, si è iscritto all'Accademia di Via Ripetta e Iì ha avuto gli incontri della vita: con lo scultore Emilio Greco e soprattutto la storica dell'arte Lorenza Trucchi "che ascoltavo incantato e che mi ha insegnato il valore della leggerezza".
Ad un corso speciale incrocia Scolamiero "e da allora siamo come fratelli" cominciando col condividere lo studio di Via Benaco. Più tardi, alla Galleria il segno di Angelica Savinio incrocerà Laura Barbarini. Fa la tesi su Alberto Burri, lo va a trovare nella sua Città di Castello, ad un passo dal Poggio e da Cagli. Nei discorsi di tutti e sei, per la verità, compaiono sempre due nomi, fra i contemporanei: Alberto Burri e Lucio Fontana.

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I vari sodalizi si stanno ormai stringendo. Alfredo Zelli e Claudio Givani fanno già progetti comuni.
Maurizio Piefranceschi e Enzo Scolamiero hanno insieme lo studio. I quattro realizzano la mostra "Quattro passi", la prima autogestita fuori dalle gallerie. "Discutevamo animatamente per nottate intere, fra carbonare, matriciane e Chianti, dei nostri ultimi lavori dell'uno o dell'altro, di quello che si vedeva in giro, noi ci sentivamo lontani dal concettuale, una sorta di dittatura, in cui pure ci eravamo formati, ma anche dall'onda caotica della transavanguardia e dalla sua pitturaccia che, facendosi, negava se stessa, ci sentivamo in un limbo dove erano praticabili il rigore ed una pittura più lenta e meditata". Oreste Casalini torna da due anni di New York, vede una mostra di Maurizio e lo chiama per dirgli che gli è piaciuta, che si identifica col suo modo di lavorare. "Da allora ci siamo rivisti tante volte," dice adesso, "e via via ho rivisto Alfredo, Claudio, Enzo, Laura, una miniera di lavoro che condivido in pieno, una frequentazione che è divenuta un nutrimento, un piacere, una necessità, è nato tutto così, senza una particolare strategia".


I quattro passi sono diventati sei. Con una settima parete in cui mescolare i loro
lavori. Il futuro di questo laboratorio, di questo comune sentire? "Quien sabe? Conta l'energia comune che stiamo investendo in questi progetti", risponde Givani. "A Roma c'è un conformismo asfissiante, tutti lavorano ad una lingue globale NEO POP, io continuo a credere nei mezzi linguisticamente sedimentati", fa
eco Zelli. "È una specie di jam session, un organismo diverso e articolato, non collettivo, magari avessimo un unico luogo, una sola grande officina", azzarda Pierfranceschi. "Amo Mozart e Miles Davis", dice, esplicita e misteriosa insieme, Laura Barbarini alludendo al fare musica in gruppo. "Cerchiamo spazi di
dialogo con la società rifuggendo dai luoghi sacri e ingessati dell'arte ufficiale", chiarisce Scolamiero. "Il nostro tentativo? Contribuire a far sì che le opere d'arte tornino ad essere quello che sono sempre state: un piacere", conclude Casalini. La confessione in privato per ora finisce qui. Comincia quella in pubblico.
E poi chissà.


Per ora hanno scelto non per caso Cagli, marca di confine fra il Montefeltro urbinate e Gubbio, e
I'Umbria, la stessa Toscana, la non lontana Romagna. Un crocevia di culture antiche che si rispecchiano in un paesaggio collinare e montano fra i più armoniosi, solenni e conservati: se non andrà troppo avanti
lo scasso delle grandi cave che aprono ferite bianche lancinanti nelle pareti verdissime dei monti, se non si romperà il rapporto città-campagna così spesso in pericolo, se rimarrà culturalmente vitale (e per ora lo è) la rete degli abitati che qui hanno una così precisa dignità urbanistica e architettonica. Era I'utopia
generosa di un poeta e scrittore urbinate, Paolo Volponi (Urbino 1924-Ancona 1994) - uomo di città, ma ancor più di campagna, in fondo (come lo stesso Umberto Piersanti, in piena attività) - il quale tutto conosceva, respirava, annusava, esplorava di questi paesaggi, di questo mondo rappresentato soprattutto ne La macchina mondiale, storie di visionari fra I'Urbinate e Roma, venditori di lupini e di "fusaje", e
nei versi de Le porte dell'Appennino, come questi: "versano freschi panni / nel Metauro già calmo / I'acque del Candigliano, / sceso a sbalzi da Cagli, da Cantiano / dalle gole del Furlo".


sito a cura di PASMAL

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