1996 Pitture
Marco Goldin
A un uso ancora diverso del colore perviene Maurizio Pierfranceschi, forse uno degli autori che con la pienezza del proprio lavoro rappresenta il senso vero e ultimativo di questa mostra. Con la fiducia nell'opera come luogo di ogni ricchezza. Lo si vedeva bene già in un quadro monumentale del 1992, L'abbandono, dov'era il senso panico di una notte al suo culmine e tutto viveva nell'esaltazione della forma che si generava per sé sola, chiusa dal colore come in un abbraccio inestirpabile, stagnante. Ma è con le opere dell'anno successivo che Pierfranceschi entra in modo deciso entro la più vera misura del suo operare, che si leva alto, senza paura dei rimandi e delle memorie. Per cui Lorenzo Lotto può dialogare con de Staël, e l'immagine di un volto o la scena della crocefissione essere costruite solo con l'intarsio del colore. E se anche egli fa ricorso agli elementi tradizionali della pittura, puntando talvolta sulla riconoscibilità delle singole parti quello che si manifesta è uno straniamento, una parziale distonia, che sono il fascino più vero di questa ricerca. Per cui anche quando dipinge una stella di natale, è un fiore piantato in faccia all'immenso, la sua sintesi estrema, il suo presentarsi sulla soglia del nulla, l'essere il colore che annuncia la fissità, l'incarnamento nella forma. Perchè quella della forma è la vera ossessione di Pierfranceschi, che sempre la ricerca, anche nella scarica tonante dell'azzurro del cielo incatramato, nel giallo acido del corpo di un uccello che si blocca, nell'arancio che è il tappeto su cui posarsi. Forma e colore, colore e forma: sono questi gli elementi che tengono stretta questa pittura. La regola del due, attorno alla quale si costruiscono variazioni, si aprono e si ampliano orizzonti, si scandiscono i movimenti di una natura perfino travolta dalla sua purezza originaria. Pierfranceschi muta tutto nell'essenziale, punta senza timore verso quello spazio sciolto da ogni peso, quello spazio che la pittura vuole dire.
A un uso ancora diverso del colore perviene Maurizio Pierfranceschi, forse uno degli autori che con la pienezza del proprio lavoro rappresenta il senso vero e ultimativo di questa mostra. Con la fiducia nell'opera come luogo di ogni ricchezza. Lo si vedeva bene già in un quadro monumentale del 1992, L'abbandono, dov'era il senso panico di una notte al suo culmine e tutto viveva nell'esaltazione della forma che si generava per sé sola, chiusa dal colore come in un abbraccio inestirpabile, stagnante. Ma è con le opere dell'anno successivo che Pierfranceschi entra in modo deciso entro la più vera misura del suo operare, che si leva alto, senza paura dei rimandi e delle memorie. Per cui Lorenzo Lotto può dialogare con de Staël, e l'immagine di un volto o la scena della crocefissione essere costruite solo con l'intarsio del colore. E se anche egli fa ricorso agli elementi tradizionali della pittura, puntando talvolta sulla riconoscibilità delle singole parti quello che si manifesta è uno straniamento, una parziale distonia, che sono il fascino più vero di questa ricerca. Per cui anche quando dipinge una stella di natale, è un fiore piantato in faccia all'immenso, la sua sintesi estrema, il suo presentarsi sulla soglia del nulla, l'essere il colore che annuncia la fissità, l'incarnamento nella forma. Perchè quella della forma è la vera ossessione di Pierfranceschi, che sempre la ricerca, anche nella scarica tonante dell'azzurro del cielo incatramato, nel giallo acido del corpo di un uccello che si blocca, nell'arancio che è il tappeto su cui posarsi. Forma e colore, colore e forma: sono questi gli elementi che tengono stretta questa pittura. La regola del due, attorno alla quale si costruiscono variazioni, si aprono e si ampliano orizzonti, si scandiscono i movimenti di una natura perfino travolta dalla sua purezza originaria. Pierfranceschi muta tutto nell'essenziale, punta senza timore verso quello spazio sciolto da ogni peso, quello spazio che la pittura vuole dire.